Ne La malattia mortale, Kierkegaard descrive come avvenga in alcune persone il passaggio alla vita spirituale. Questo cambiamento interiore è reso possibile da una forma di disperazione, che chiama “disperazione dell’eterno”, ossia dalla disperazione che un individuo prova per la propria debolezza: “il disperato stesso comprende che è debolezza prendersi tanto a cuore il terrestre, che è debolezza disperarsi”.
Mi chiedo se questo “passaggio alla vita spirituale” abbia a che vedere con l’accettazione di un etica cristiana, dove per “passaggio alla vita spirituale” intendo diventare io attraverso la “disperazione dell’io”, cioè fare esperienza di una “frattura”, quale quella che si verifica quando il “taciturno” di Kierkegaard si trova in lite con se stesso e si dispera per essersi di disperato - per avere rivelato a se stesso la propria debolezza.
Nell’etica cristiana sono beati i deboli. Ogni uomo riconosce di essere fragile, debole e bisognoso, e trova la sua forza nella fede in Dio (che per Kierkegaard, in molte frasi del libro La malattia mortale, equivale a Io).
Nell’etica che Nietzsche chiama cavalleresca (vedi Genealogia della morale), e che sopravvive ancora oggi nei valori dell’affermazione di sé - nella ricchezza, nel potere, nella forza, nella bellezza - il debole è immorale; è, per usare un’espressione in voga oggi negli USA, un perdente. In base al valore dell’affermazione di sé, il disperato fa bene a disperarsi per la sua disperazione perché con essa ha rivelato la propria debolezza, ha rivelato cioè di essere vile, basso e spregevole, inadatto alla vita. Dovrebbe suicidarsi. È già morto nel confronto con la persona forte, che non si dispera.
La cura di Kierkegaard per l’orgoglio - che porta il tipo “taciturno” a litigare con se stesso, colpevole di essersi disperato per una vicenda terrestre o per “il terrestre” (dopo avere operato una generalizzazione), a “marciare sul posto” e a disperarsi “al quadrato” - è così esposta:
Se fosse possibile che qualcuno venisse a sapere ciò che egli chiude in se stesso, e poi gli dicesse: questo è orgoglio, in fondo tu sei orgoglioso del tuo io, egli difficilmente lo ammetterebbe davanti a un altro. Se fosse rimasto solo con se stesso, confesserebbe forse che c'era qualcosa di vero in quelle parole, ma la passione con la quale il suo io ha compreso la sua debolezza lo riporterebbe presto all'illusione che non poteva assolutamente essere orgoglio, essendo proprio la sua debolezza la ragione per cui egli si disperava, come se non fosse orgoglio dare così enorme importanza alla debolezza, come se non fosse per poter essere orgoglioso del suo io che egli non può sopportare di essere consapevole della sua debolezza. Se gli si dicesse: «Questa è una complicazione strana, un nodo singolare; perché, in fondo, tutto il male sta nel modo in cui si è intricato il pensiero; per il resto il tuo stato è perfettamente normale: è proprio questa la via che devi prendere, devi passare attraverso la disperazione dell’io per giungere all'io. È giusto che sei debole, ma non è questa la cosa per cui ti devi disperare; l’io dev'essere spezzato per diventare se stesso»; se gli si parlasse così, egli, in un momento libero di passione, lo comprenderebbe; ma presto la passione gli farebbe smarrire la vista; e così si volterebbe di nuovo nella direzione falsa, dentro alla disperazione (p. 91).
La terapia consiste nel far capire un concetto a quella persona: si sta arrovellando per nulla; che disperarsi è “normale”, non deve farsene un problema. Anzi, questa frattura in cui si trova ora gli dà finalmente la possibilità di riconoscere e legittimare il suo Io. Questa terapia è la terapia buddista che sta nella comprensione del concetto di doppia freccia. Nei termini della psicoterapia cognitivo-comportamentale, la disperazione per essersi disperati equivale a un problema secondario; si tratta di combatterlo togliendogli la terra da sotto e - nella terapia mindfulness-based di oggi - di accettare il problema primario come normale, comprensibile, passeggera reazione umana a una circostanza difficile.
Ora per me questo riconoscimento e legittimazione di un io significa conferire alle teorizzazioni psicoterapeutiche dell’ultimo secolo e mezzo tutta la loro dignità, il che significa: capire che gli esseri umani hanno una mente e una vita psichica che li porta a soffrire continuamente di una serie di cose, per eventi esteriori e interiori. Fra queste, tra l’altro, ha una parte speciale proprio la volontà di potenza (vedi, oltre che Nietzsche, Alfred Adler; o, più in generale la centralità del bisogno di controllo, ammesso da tutti in varie forme nel mondo della psicologia; o quello di autoaffermazione - per es., Maslow).
Quindi la terapia del conflitto interiore innescato da ciò che ha messo in discussione la propria invulnerabilità è la conoscenza e serena accettazione della inevitabile frustrazione della propria volontà di potenza, la quale frustrazione è sconfitta oggettiva e senza appello in un mondo competitivo dove mors tua vita mea o cose del genere (morale cavalleresca nicciana) mentre è avvicinamento alla fede e salvezza in un mondo cristiano.
La fede in Dio, o la psicoterapia riuscita, portano alla ricomposizione delle proprie fratture interiori, alla cessazione della lite con se stessi e alla pace. Nei termini di questo discorso credo si possa dire che la fede sia psicoterapia e che la ricomposizione finale raggiunta con una psicoterapia riuscita equivalga alla fede.