GABRIELE LO IACONO
Psicologo Psicoterapeuta

Nella mente di un solitario

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Tema: “Lasciamo un re completamente solo, senza alcuna soddisfazione per i sensi, senza alcuna preoccupazione nello spirito, senza compagnie, del tutto libero di pensare a se stesso, e si vedrà che un re privo di distrazioni non è che un uomo pieno di miserie” (Blaise Pascal, Pensieri, divertimento 127).

Svolgimento: Il solitario di Eugene Ionesco. Il protagonista, assai solitario e nullafacente, non è un re, ma un trentacinquenne orfano e senza contatti con parenti (i più vicini sono i cugini) e senza amici. Solo al mondo, decide di recidere gli unici legami che gli restano: avendo ricevuto una sostanziosa eredità e non piacendogli faticare in ufficio, decide di vivere di rendita in una casa nuova.

Ora il suo tempo è scandito solo dall’alternarsi di notte e giorno, lettura del giornale, incontro con donna delle pulizie e portinaia (di cui ha paura, come di chiunque altro), colazione, aperitivo, pranzo, aperitivo, cena. Due passi intorno all’isolato. Il tutto, cominciando a bere superalcolici e vino la mattina a colazione, per finire con gli ultimi bicchieri al ritorno a casa dopo la cena. Passano i giorni, i mesi e forse gli anni, rompe quasi ogni contatto con la realtà e vive in preda a visioni di rivolte cittadine sanguinose, allucinazioni che forse esprimono la drammaticità con cui vive i banali incontri quotidiani. La percezione del tempo si confonde e anche il lettore non capisce quanto tempo occupi tutto questo ozioso rimuginare.

Anziché riflettere su ciò che va storto nella sua vita - e avrebbe di che riflettere! - e darsi da fare per migliorarla, passa tutto il tempo a farsi domande astratte sui limiti della comprensione umana, che non fanno che allontanarlo ulteriormente dagli altri, rendendolo insopportabile anche all’unica donna che un po’ inspiegabilmente prova ad avere una relazione con lui.

Oltre ad avere un serio problema di alcolismo, a cui non viene dedicata una sola riflessione in tutto il romanzo, soffre di “nevrastenia” e riceve cure psicofarmacologiche. Ha paura non solo degli altri e della morte, ma un po’ di tutto, compreso attraversare la strada. Il sonno gli pare simile alla morte e così ha paura di dormire.

In molti potranno riconoscere se stessi. Io ho riconosciuto in parte me, in anni adolescenziali, anche se per mia fortuna ho proseguito gli studi e non sono stato alcolista. Ma ho conosciuto lo spaesamento che nasce dal porsi domande prive di risposta sul posto dell’uomo nell’universo, o di sé rispetto agli altri o di sé viventi di fronte al non essere mai stati e alla prospettiva di non essere più. E ho ogni giorno davanti a me persone molto intelligenti che non riescono a fare a meno di porsi una parte delle domande del “solitario”.

Personalmente ho sentito un fastidioso autocompiacimento nella descrizione di questa discesa negli inferi dell’angoscia e dell’alcolismo, dietro un diafano paravento di affascinanti domande esistenziali, che conferiscono al mortale pantano un’aura di raffinatezza intellettuale - per quanto tra le mille paranoie del solitario ci sia anche quella di non avere studiato.

Questo in sintesi è quello che direi di questo romanzo. Se il lettore ha voglia di scendere nei particolari ecco un approfondimento.

L’autore descrive perlopiù i ragionamenti del protagonista nel loro divenire, con i loro subitanei cambiamenti di rotta, le loro contraddizioni. Non sempre essi sono trasparenti e l’autore è perdonato perché il protagonista beve due bottiglie di vino, quattro di cognac e altri bicchieri in una sola giornata, arriva a perdere i sensi e la sua mente non può non risentirne.

In qualche momento mi è possibile seguire i suoi ragionamenti, in altri no. Per esempio, immagina che il mondo sia racchiuso in una sfera e questa a sua volta in un’altra sfera e così via, il che non corrisponde alle cognizioni astronomiche dell’epoca in cui vive protagonista, verso la fine degli anni Sessanta, e ricorda più che altro la cosmologa dantesca della Divina commedia.

Il principale tema che preoccupa il protagonista è l’incapacità di immaginare l’universo infinito e ancora di più l’universo finito. Tale impossibilità di immaginare è per lui “inammissibile” perché pone dei limiti alla conoscenza rispetto ai quali, ai suoi occhi, tutto ciò che invece si sa non ha alcun valore. E allora le parole (senza distinzioni) non significano nulla. Non sappiamo niente. Non si può essere certi di niente. A quest’ultima conclusione, lui stesso ribatte che ha alcune certezze di tipo concreto, ma non gli sembrano sufficienti.

“…che cos’è la mia condizione, che cosa ci vengo a fare qui, ammesso che ci sia davvero qualcosa da fare?” (p. 98).

Ma che significa? Pur avendo quotidianamente dei moti di gioia, e riconoscendo che tutto ciò che esiste attorno a lui è “molto interessante”, con i suoi ragionamenti arriva a provare angoscia e nausea. Sa che per lui sarebbe meglio non ragionare, ma non è capace di farlo. A volte, per vincere la sua angoscia, pratica una sorta di estraniamento basato sulla concentrazione, che ricorda moltissimo la meditazione di consapevolezza, e fa alcune osservazioni molto acute su questa pratica, tra le quali che… a volte l’angoscia in questa maniera aumenta. Se gli fosse possibile, vorrebbe vivere sempre in questo “altrove“. Gli altri

“ti tirano fuori della realtà, ti chiudono nella loro. O meglio, nel loro modo di vedere. Uno adotta la loro ottica… Io non posso non tener conto di loro è evidente, ma voglio contare soprattutto sull’altrove. Vero è l’altrove“ (p. 85).

La sua mancanza di certezze a volte stride con la presunzione con cui attribuisce ad altri personaggi consapevolezza o inconsapevolezza di varie cose. Gli “altri”, tutti, sono rassegnati, incoscienti, superficiali. Se stanno bene (è sempre lui a stabilire che gli “altri” stanno bene e lui no!) è solo per questo. Lui sente di portare l’angoscia dell’umanità intera - e qui rasenta il delirio della depressione maggiore. Degli altri avventori del ristorante in cui mangia ogni giorno, dice “credevano di avere un’aria disinvolta” (p. 109). Insomma, se la canta e se la suona. È preda di moti di odio verso le coppie con bambini, che suscitano in lui l’impulso all’omicidio o al suicidio, come se fossero due soluzioni equivalenti per lo stesso problema. Quale sia il problema non è spiegato. Si può immaginare che abbia a che vedere con un pensiero del tipo

“sono completamente sbagliato io o sono completamente sbagliati loro”.

Perché un atteggiamento eventualmente non condivisibile attorno alla famiglia e alla condizione di genitore debba portare alla morte di qualcuno, non è dato sapere. Presumo che si tratti di una questione vitale; anzi è fondamentalmente una questione vitale, sia perché riguarda la vita dei figli, la prosecuzione della specie, sia perché l’amore e la riproduzione riguardano la prosecuzione della propria vita. Il protagonista non è felice. Non ha una relazione con una donna da cinque anni. È stato lasciato dalla terza delle tre donne che ha conosciuto, che ha preferito a lui un suo collega. Riflessioni serie intorno a sue eventuali mancanze non ce ne sono, ma ci sono infinite elucubrazioni che portano il lettore a provare la stessa irrequietezza e la stessa nausea che prova il protagonista.

Il solitario non ha né ambizioni né obiettivi, se non quello di sottrarsi alla fatica del lavoro di impiegato. Dal primo giorno di libertà dal lavoro si rende immediatamente conto che questa condizione non gli giova, anche se nei ragionamenti prova a continuare a considerarsi fortunato di avere ereditato una somma tale da essere esonerato dal lavoro per tutta la vita. La donna delle pulizie, quando lo vede ubriaco a metà mattina, gli spiega che non può vivere così. E lui le dà ragione, più per farla smettere che per esserne veramente convinto. Anche il filosofo-psicoanalista, l’unica figura di amico, del quale tuttavia parla con estremo distacco, gli dice che farebbe meglio a lavorare; ma che fare?

“Il risveglio è duro, si intende. Una giornata davanti a me, un’immensa spiaggia deserta di cui non si vede la fine“ (p. 94).

Il capitolo “gli altri” potrebbe spiegare gran parte della sua condizione. Gli altri li teme e cerca di evitarli, si definisce timido.

“Che cosa sarebbe accaduto se fossi stato più vicino a loro, con loro? Come sarebbe stato interessante! Avrei vissuto. Essi erano separati da me come da un vetro spesso, infrangibile. Come fare per avvicinarli? Per me sono marziani, i miei simili! Erano loro lì dietro il vetro, come allo zoo, o ero io?… Standoci attento riuscivo a fare in modo che i loro movimenti, i loro gesti mi paressero disordinati, un linguaggio di cui non afferravo il senso“ (p. 87).

Il protagonista, quindi, si sforza di estraniarsi per difendersi dal bisogno di contatto, un bisogno che non sa come soddisfare. Le domande volte a una conoscenza inaccessibile sembrano quasi una difesa rispetto alla consapevolezza dell’incapacità di entrare in contatto - talvolta sono del tutto vuote, contraddittorie, un domandarsi a vanvera, come un tic, una contrazione involontaria della sua mente.

Si perde contemplando i misteri della vita, facendo riaffiorare alla mia mente domande analoghe che mi sono fatto e che talvolta, anche stimolato dalle persone che incontro nel mio studio, mi faccio ancora. Per esempio, riflette sul fatto che la vita, vista all’indietro e purificata dal dolore e dalle difficoltà, appare bellissima, e si domanda perché invece non si riesca a ridere di certi fatti privi di importanza nel momento in cui si stanno verificando.

“Portavo tutto il peso del momento che mi opprimeva a tal punto che non avevo la possibilità di approfittare, o addirittura di godere di quel momento” (p. 94).

Trovo autentico questo passaggio:

“Io non sono sempre schiacciato, né sempre inghiottito. So che il mondo è sempre, instancabilmente vergine. E questo che mi dà come una ragione di vivere. Ma ciò che so non lo so abbastanza, non con tutto il mio essere. Mentre la pesantezza o lo spessore vengono senza che io ci pensi, li sento come se esistessero veramente, come se fosse quello il fondo e la materia di tutto“.

La sofferenza sembra in qualche modo più "vera" della leggerezza, questo è un dato che riferiscono molte persone di animo pesante. I temi esistenziali accennati sono molti: la noia, la solitudine, l’incomunicabilità, la morte, la libertà, lo stupore dell’esistenza di sé e delle cose. Sulla noia:

“è peggio dell’angoscia, anzi è il contrario, quando si è angosciati non ci si annoia più; passa così dalla noia all’angoscia, dall’angoscia alla noia. No, non mi annoio più, no, non devo, ma sento in fondo in fondo che la noia è presente, che mi spia, mi minaccia, che può crescere, avvolgermi, soffocarmi”. (p. 78)

A un certo punto oltre al delirio arrivano le allucinazioni. La trama si perde e con essa anche la distinzione tra realtà e fantasia del protagonista. Dopo avere delirato al ristorante ed essere stato oggetto di sguardi sospettosi, va in una piazza dove vede scene di scontri sanguinosi (una visione che da quel momento in poi si farà insistente). Poi torna al ristorante e di punto in bianco la cameriera si impietosisce per lui, lo bacia e si trasferisce a vivere a casa sua.

C’è una specie di grandiosità in lui, un non accontentarsi di vivere la propria vita concreta uscendo dall’indefinito delle mille possibili, essendo un uomo tra miliardi di uomini. Quello che accade a lui deve essere assoluto, lui è Adamo e la donna che lo accompagna deve essere un Eva, l’inizio della sua storia amorosa è descritto in termini di inizio del mondo. Lei gli dice: “non sei pazzo e pure fai l’effetto di un pazzo“. E lui le risponde:

“perché ho ragione… Perché vedo e so…” (p. 123).

Patetico. Non ha bisogno di conferme esterne per la sua superiorità: la conferma se la dà da solo. Quando crolla il suo mondo, lui dice che crolla il mondo, mantenendosi estraneo a ogni intersoggettività. Verso la fine del libro un raggio di luce:

“Io vivevo nella catastrofe indipendentemente da quello che succedeva all’esterno. O meglio, quello che succedeva al di fuori succedeva in me. L’esterno cominciava a riflettere l’interno. O viceversa. Ma solo adesso me ne rendevo conto” (p. 137).

Finalmente! Purtroppo però questa illuminazione non è sufficiente a una svolta e il racconto, sostanzialmente privo di trama, si conclude così come è cominciato.

Vedi anche Ionesco di Eugene Ionesco, di Gabriella Bosco.

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