Quando il pensiero è fonte di dolore
“Antistene era solito dire che coloro che hanno conquistato un equilibrio spirituale non devono studiare letteratura per non essere distratti da interessi estranei” (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, VI.104) e che “la virtù è nelle azioni e non ha bisogno né di moltissime parole né di moltissime cognizioni” (ivi VI.11). Io intendo questa raccomandazione come un invito a non “eccitare la ragione”.
Qui come altrove negli insegnamenti cinici e stoici si capisce come un eccesso di pensiero razionale, cioè basato su concetti, specialmente se astratti, possa disturbare l’equilibrio. Il ritorno allo stato “naturale” prescritto dai filosofi cinici potrebbe avere anche questo senso, di limitare l’attività speculativa, il rimugino mentale, nella consapevolezza del fatto che l’attività mentale può creare problemi inesistenti o aggravare problemi esistenti. La stessa consapevolezza è nel buddhismo. La si ritrova anche in psicologia, per esempio degli studi che dimostrano come le persone depresse abbiano una visione più esatta di sé, degli altri e del mondo anziché una visione distorta (S.E. Taylor, Illusioni. Quando e perché l'autoinganno diventa la strategia più giusta, Giunti; P. Locci, Elogio del pessimismo, Franco Angeli), come ipotizzato nel cognitivismo clinico (vedi per es., la psicoterapia cognitiva di A.T. Beck), e che siano proprio la superficialità e certi bias delle persone non depresse a consentire loro di scivolare tra le disgrazie della vita, senza troppo darsi pena.
Va riconosciuto che a volte proprio i passaggi più difficili della vita hanno qualcosa di terapeutico nel senso che riportano a una semplicità nel dolore che fa piazza pulita di alcuni processi mentali, i quali nella banale quotidianità generano ansia o irrequietezza o generico malessere: le domande sulle cause prime, sul perché degli eventi, sull’ordine delle cose; le preoccupazioni per il futuro; i dubbi sulle scelte di azione, anche banali; i dubbi su di sé, le proprie qualità, i propri difetti, le proprie capacità, i propri limiti; i tentativi di autodisciplinarsi; i confronti con gli altri, col passato, con il proprio ideale; le ruminazioni sulle piccole contrarietà, sulle ingiustizie subite… Ha senso dire “Sono più contento quando piango” perché nel pianto c’è un contatto con un sentimento doloroso che spazza via l’ansia di mille scenari temuti e considerati possibili.
A questo proposito può avere ragione Arthur Schopenhauer nella sua teoria del vescicante (in Il mondo come volontà e rappresentazione), contenitore del dolore con capienza limitata, che pone un limite alla quantità di dolore che può essere effettivamente sperimentato. Quando arriva un dolore in risposta a una circostanza reale, i dolori creati dall’attività mentale oziosa per un po’ spariscono o come minimo recedono decisamente sullo sfondo. Il dolore della disgrazia compiuta ha una misura e un carattere e in questo è meno spaventoso di un dolore solo possibile. “Ecco quello che temevo, è successo”. In questo senso gli insegnamenti dei cinici sono già psicoterapia, così come quelli stoici. C’è in essi la consapevolezza di problematiche prettamente psicologiche, come quella della vergogna e quella del troppo pensare, tanto per fare i primi esempi che mi vengono in mente. E quella derivante dal funzionamento del desiderio che non è mai sazio e che va educato con la temperanza, l'accontentarsi di poco.
La persona che soffre nell’attesa di un intervento chirurgico facile, senza rischi, con una brevissima degenza e indolore, soffre di un’idea. La terapia per una persona simile deve seguire la strada tracciata da Epitteto quando dice, probabilmente esagerando, che “Quel che turba gli uomini non sono le cose, bensì i giudizi che essi formulano intorno alle cose” (vedi il Manuale e le Diatribe). I filosofi cinici e stoici, forse i cristiani e di sicuro i terapeuti comportamentisti condividono un assunto di base: soffriamo a causa di un cattivo apprendimento e possiamo smettere di soffrire con un nuovo apprendimento correttivo.