GABRIELE LO IACONO
Psicologo Psicoterapeuta

Quando la morte insegna a vivere

Marie-Claire%20Thomas Un dipinto di Marie-Claire Thomas

Imparare a morire significa pacificarsi con l’idea della propria fine. Impariamo sin da bambini che la vita è transitoria. Prima vediamo scomparire qualcuno, un animale domestico, un nonno, un conoscente. Ci raccontano magari che è andato in cielo. Qualcuno, in un eccessivo desiderio di protezione, ci racconta che tornerà; ovviamente questo non succede e la menzogna pietosa si rivela per ciò che è.

Capita poi di subire il distacco da un punto riferimento affettivo importante. E allora l’incisività della morte è ben diversa: una lacerazione che lascia inizialmente increduli e solo gradualmente verrà riconosciuta come un distacco definitivo, in un processo che può durare anni. I tempi della percezione dell’irreversibilità infatti sono lunghi. E qualcuno non vuole proprio rassegnarsi al fatto che il ritorno non ci sarà – e potrà cercare rifugio nell’idea di una riunione nell’aldilà. Si tenta di “riprendere” la propria vita, ma si incontrano sempre nuovi risvolti dell’assenza o di una presenza che è diventata solo interiore. Un vero e proprio ritorno alla vecchia normalità non avverrà. Si accetterà invece gradualmente una nuova normalità: di episodi come quello – si capisce un poco alla volta – ce ne saranno altri. Un concetto difficile da accettare senza cambiare atteggiamento verso la vita, il proprio futuro, le relazioni con gli altri.

E poi si arriva a una cognizione più matura della propria personale mortalità. Un giorno, quello che è successo al mio povero amico o parente, succederà anche a me. Soffrirò? Quanto? Sarò in grado di reggere il dolore e la paura? E, dopo la scomparsa del mio corpo, io ci sarò ancora? Il mio spirito ci sarà ancora? E che cosa percepirà? Qui le idee filosofiche e/o i messaggi religiosi recepiti fino a quel momento con poca attenzione, o magari scetticismo o perfino fastidio, si fanno più interessanti. Ognuno cerca di darsi queste risposte.

Non tutti passano a questa fase, che può essere vissuta a momenti con terrore, ma quelli che non si trincerano dietro l’idea inconscia e irrazionale “a me non capiterà” si faranno una loro idea del proprio morire e della propria morte. Già, perché una cosa è il morire, il processo che porta alla propria morte, altro è l’essere morti. Tante volte in vita si pensa di essere sul punto di morire e poi questo non succede.

La morte ha una doppia faccia: supremo pericolo in alcuni momenti, liberazione dai patimenti della vita in altri. Per qualcuno la consapevolezza del proprio ineluttabile destino è un invito a usare bene il proprio tempo; altri vivono la morte come se fosse presente già ora, dato che avverrà necessariamente, e al cospetto di tale assoluto si sentono incapaci di darsi degli obiettivi poiché tutto appare loro vano.

Epicuro ci consola con due considerazioni: la prima, considerata spesso un sofisma, è che non incontreremo mai la nostra morte, finché saremo vivi; pertanto non abbiamo motivo di temerla. La seconda è che la parabola della vita individuale è una piccolissima parentesi nella storia dell’universo: la prospettiva di non esserci più non dovrebbe spaventarci più del fatto che, prima di nascere, per miliardi di anni non siamo esistiti, e questo non ci ha provocato nessuna sofferenza. Se, quando muore il corpo, scompare anche l’io che sperimenta le cose e sé stesso, il problema della morte non si pone – se non come compassione per chi resta; chi crede invece nella sopravvivenza dello spirito, o magari nella sua reincarnazione, non si può invece accontentare; resta il dubbio di quel che sarà.

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